martedì 6 ottobre 2015

L'amorevole Belinda. Primo acuto tra i gabbiani.

Belinda, Belinda bella, quanti segnali, quante conferme. Titolare dell’accoppiata Rolando – Wimbledon nel 2013, ai tempi spensierati degli anni junior, giusto per far annotare sugli annali una doppietta slam, che a livello giovanile mancava da 26 major. Terra ed erba, poi. E mi direte che tutto sommato, a livello giovanile, e massime in gonnella, il fondo non è poi così determinante, specie se le categorie che ti separano dalle giocatrici coeve sono otto o nove a tuo vantaggio. Sarà pur vero, senz’altro vero, eppure il salto tra i grandi sembra essere stato digerito senza bisogno di Maalox: far quarti a Flushing Meadows a diciassette anni non prova niente, ma qualche indizio lo da, e le conferme non stanno tardando. Vagamente messa a soqquadro durante l’inverno da una pressione che credo si aspettasse ma che in fondo non è mai facile capire che bestia sia, l’amorevole Belinda ha in qualche modo sofferto l’inizio della possibile annata consacratoria, non certo aiutata dal testamento tennistico mondiale che, pur sottolineando tutti i distinguo del caso, la nominava in qualche modo erede universale di Martina Hingis. Facile e inesatto, per non dire insensato, il paragone tra le due, i tratti comuni riducendosi all’ espressione geografica d’origine (l’ex Cecoslovacchia) e alla fruizione delle prestazioni di Melanie Molitorova, madre nonché allenatrice di Martina che da qualche tempo coadiuva Bencic padre nella preparazione tecnica della figlia. Il fatto che la mano di Belinda non si avvicini a quella dell’illustre predecessora è una buona notizia per le avversarie, questo va detto. Migliorato significativamente il servizio durante il training invernale, la diciottenne di Flawil vanta infatti fondamentali alquanto pesanti, tende ad essere dominante pur sbagliando molto poco e soprattutto con il rovescio, congenito, riesce a infliggere all’avversaria continue emorragie che spesso portano quest’ultima al collasso.

Un campionario del suo arsenale si è visto giusto ieri nella finale di Eastbourne, quando ha sostanzialmente dominato una Radwanska comunque in crescita dopo i primi orribili sei mesi dell’anno. Una partita dove la piccola svizzera ha deciso tutto, nel bene e nel male, riuscendo nell’ardua impresa di scardinare la sofisticata ragnatela strategica dell’artista polacca, tenendo in modo sorprendente da fondocampo e anzi inducendo Aga a liberarsi la prima dallo scambio con una fretta che ha finito per snaturare il suo gioco e farla saltare alla distanza. Se il match si è protratto oltre il secondo set lo si deve a un killer instinct che Bencic non ha ancora del tutto affinato e all’unica vistosa pecca nei suoi schemi: la ritrosia all’approccio a rete che la obbliga a prolungare con rischi eccessivi scambi sostanzialmente vinti. Sicuro che i suoi tecnici, ovviamente molto più acuti di chi scrive, sapranno approfittare della sua innata recettività per colmare una manchevolezza comune al novantanove percento delle tenniste contemporanee, credo proprio che Belinda non tarderà a bissare il primo trionfo della sua giovane e presumibilmente luminosissima carriera, ottenuto con una prova sfolgorante nel vento dell’East Sussex tra un coro di gabbiani.

Thanasi il leone.

Kokkinakis è un leone. Difficile che non diventi un giocatore vero. Al terzo turno del "quinto slam" domina il primo set contro Juan Monaco, è inavvicinabile al servizio e ostenta un'oltraggiosa tendenza a tenere i piedi molto prossimi alla linea di fondo. Va avanti anche nel secondo con il break del 3-2, poi scende di botto con le percentuali della prima, mentre "Pico", non a caso contestualmente, alza il livello e sorpassa. Thanasi recupera fino al 5 pari, ma infine è costretto a soccombere: un set per uno e qualificazione appesa a un terzo parziale in cui l'argentino, più fresco e scafato, pare nettamente favorito. Invece l'australiano dimostra di non saper solo azzannare i momenti floridi della partita, ma anche di saper remare, sputare sangue, "star lì" con la testa. Mette il naso avanti ma il servizio non lo sostiene come dovrebbe, annaspa, viene recuperato, trova inspiegabili forze per aggrapparsi ad un altro insperato break e va a servire per qualificarsi agli ottavi. Sul match point, il dramma: Kokkinakis, spiritato, tiene uno scambio con le unghie, finché Monaco prova a tirare il vincente: largo. Thanasi si accascia, aspettando di sentire il liberatorio "out!" che gli consegnerebbe la partita. Ma nessuno fiata. Il ragazzino è atterrito, stenta a recuperare la posizione eretta mentre Layani lo guarda con la tenerezza compassionevole di un genitore che osserva un figlio adolescente disperato dopo essere stato lasciato dalla sua prima fidanzata. Layani sa che quella palla probabilmente non è buona, ma non tanto sicuro da rettificare l'opinione del giudice di linea. E Kokkinakis non ha più challanges a disposizione. Parità, dunque, doloroso quanto prevedibile preludio al controbreak e al sorpasso di Monaco. 

Diciott'anni, alla prima grande opportunità in torneo importantissimo, dopo quasi tre ore di match fatto di tante occasioni faticosamente guadagnate e sempre sfuggitegli dalle mani per un niente, contro il prototipo di giocatore che non regala nulla e tende a esaltarsi nella lotta specie in un'atmosfera bollente: in quanti sarebbero stati ancora disposti a credere alla vittoria? Probabilmente solo lui. Lui che soffre come un animale, che salva il game rischiando tutto e si guadagna il tie break. Lui che, ancora una volta, patisce il ritorno di un altrettanto commovente "Pico" fino ad arrivare ad altri match point, stavolta due di seguito, il primo con il servizio a disposizione. Che non basta, bisogna aggrapparsi al secondo, vincere sul servizio di un avversario che potrebbe non perdonarlo più. E qui, con l'ultima stilla di sudore, Thanasi in back di rovescio manda di là una palla che supera il nastro per magia, come sospinta dal soffio del destino. Il campo è pressoché libero, ma Monaco, sfinito lui pure, manda a mezza rete l'ultima occasione dell'incontro.

Vince, il fenomeno Aussie, e si batte forte il pugno sul cuore agitando il ciuffo da bravaccio manzoniano nel sole della California. Si, Thanasi è un leone. E i leoni, con quel servizio, possono diventare pericolosi. Chissà, forse un giorno il grande Pico potrà raccontare di esser stato il testimone privilegiato dell'alba di una nuova grande era del tennis australiano.

Vidi o'Marin, quant'è bello!


Volendo essere odiosamente banali potremmo parlare di favola, per chiudere in una cornice color pastello le istantanee che ritraggono l'incredibile cavalcata di Marin Cilic agli Us Open 2014. I presupposti per scrivere una novella a lieto fine ci sarebbero tutti, in realtà: nel maggio del 2013 Marin viene pescato ad un controllo antidoping effettuato durante l'open di Monaco di Baviera, e pochi giorni dopo i media croati iniziano a far rimbalzare la notizia: positivo. Cilic salta il torneo di Wimbledon per un non meglio precisato problema ad un ginocchio, che i maligni prima, ma poi si accoderanno in molti, sono convinti mascheri un silent ban, una squalifica de facto che l'ATP avrebbe comminato al croato prima della sanzione ufficiale, che di lì a poco si trasformerà in un'inibizione di tre mesi. Pochi, perché l'atleta collabora, ed  il glucosio proibito contenuto nelle zollette di zucchero comprate da mammà sembra sia stato assunto per imperizia: il buon Marin, in sostanza, non ha letto le avvertenze sulla confezione. Niente dolo, dunque, ed eccolo di nuovo in campo a Bercy, nell'ultimissima parte della stagione indoor europea. Alla sua buona fede credono tutti, perché Cilic, un bravissimo ragazzo, tanto bravo da sfiorare i limiti della sommissione, semplicemente non sembra provvisto della minima dose di malizia, e chi scrive si accoda alla comune percezione, che poi è anche quella di Federer, il quale, interrogato sull'argomento dopo essere stato massacrato dal tennista di Medjugorje in semifinale, ha risposto con un esaustivo "credo non abbia fatto niente di sbagliato, intendo di proposito. Se è stato stupido? Forse". Quello che pensano più o meno tutti, in definitiva. Fatto sta che la sospensione lo ha fatto pensare, lo ha reso ancor più concentrato e chiuso in se stesso. Incapace di provare sentimenti di rivalsa nei confronti di chicchessia, Cilic ha provato a dare una svolta alla sua carriera da perdente di talento: ha deciso di rischiare, scombussolando il team con l'acquisto di Goran Ivanisevic, che in tre mesi di coaching è riuscito nell'impresa impossibile; separare il Cilic ragazzo, mite e disponibile, dal Cilic giocatore. Meno di un anno dopo, Cilic lo ringrazia commosso con in mano una coppa ed un assegno da tre milioni di dollari, da neo vincitore degli Us Open.

"Vedi Goran? Anche Goran era un bravo ragazzo, ma solo fuori dal campo. Il Goran che scendeva in campo era un pazzo". Questo più o meno il ragionamento di Ivanisevic, che ha inoltre infierito su un difetto del suo assistito per lui inaccettabile: un croato alto quasi due metri non può lucrare così poco dalla prima di servizio: guardasse Karlovic, Ljubicic e Ancic, oltre ovviamente al maestro, a quante castagne dal fuoco si toglievano armando l'archibugio. Cilic ha ascoltato a testa bassa e si è messo a lavorare sodo, pensando che si, almeno valeva la pena provarci. E i risultati sono arrivati subito. Iniziata la nuova stagione con un terrificante 18-4 nel rapporto vittorie-sconfitte con due tornei conquistati, Marin ha giocato così e così sul rosso, molto bene a Wimbledon dove ha portato al quinto Djokovic in quarti di finale, ed in modo interlocutorio nei mille nordamericani sul cemento, prima della deflagrazione newyorchese. A Flushing Meadows, dopo aver facilmente superato Baghdatis, Marchenko e Anderson, Marin ha avuto bisogno di aver paura contro Simon, battuto al quarto turno al termine di una durissima battaglia in cinque set, per esplodere e annientare Berdych, Federer e infine Nishikori, nel sorprendente ultimo atto conclusosi appena qualche ora fa.

Il giapponese di Bradenton ha sorpreso da par suo anzichenò. E pensare che gli assortiti problemi fisici cui è di malgenio abbonato gli stavano suggerendo di rinunciare alla kermesse americana, ma partita dopo partita Kei ha messo insieme coraggio e fiducia, superando in fila Raonic, Wawrinka e addirittura Novak Djokovic, con una menzione speciale per il quarto vinto sullo svizzero al termine della partita più bella del torneo e forse dell'anno. Probabilmente la benzina è finita appena prima di approcciare l'ultimo ballo, perché Nishikori in finale è andato poco oltre l'infruttuosa palla break conquistata all'alba della partita, prima di naufragare in un mare di errori nella tempesta di vincenti che il suo avversario ha sparato da ogni posizione.

Il 6-3 periodico finale è una lezione molto dura per Kei, il quale però saprà far tesoro dell'esperienza, e pregando che i malanni gli stiano alla larga, tornerà a competere per qualcosa di grosso. Marin, dal canto suo, mette il punto esclamativo ad una stagione davvero inaspettata, che ha regalato quattro vincitori slam diversi ed imposto una pausa alla dittatura dei cosiddetti fab four. Cilic e Wawrinka oggi; Dimitrov, Raonic e Nishikori domani. Calcolando che il futuro a lungo termine si prevede ben frequentato e che le leggende del recentissimo passato non hanno nessuna intenzione di passare la mano, abbiamo ragionevoli speranze di poterci divertire ancora per qualche discreto annetto.


US Open 2014 (finale maschile):

Marin Cilic (CRO) b. Kei Nishikori (JPN)  6-3 6-3 6-3

Serena domina, ma occhio a Caro.


La senti chiamare "Venere nera" da un telegiornale generalista di una tivù generalista nel senso più deteriore del termine. E tu sei ancora imbambolato, completamente abbacinato dalla sua debordante prestazione sportiva che quasi ci passi sopra, quasi nemmeno te ne accorgi. Ma poi pensi che no, che "Venere nera" proprio non si può sentire. In primis perché la sorella maggiore di nome fa proprio Venere, e dunque se l'agghiacciante locuzione dev'essere per forza associata ad una campionessa di colore, che sia abbinata a colei che ne è legittima proprietaria. E poi perché, con tutto il rispetto, il nome di una dea non si addice ad una donna secolare come poche, con i piedi ben piantati per terra e l'aspetto osé ed al contempo brutalmente intimidatorio di tenutaria gentile e severa. Serena non è mai stata e non sarà mai una Maria Sharapova, algida ed inattingibile, lei sì dea per l'immaginario comune e che per questo ed altri mille motivi rappresenta la perfetta antitesi della sei volte campionessa dell'Open degli Stati Uniti d'America. Maria, quantunque feroce sul campo, sconfigge le avversarie con lo sguardo ancor prima che con la forza perché non vuole sporcarsi le mani, lei così superiore alle misere questioni della vita terrena, mentre Serena si avventa sull'avversaria, la dilania e la sbrana, prima di assolverla a rete con lo sguardo che sempre sembra esprimere postume e sincere scuse. Serena è Serena.

Maria doveva e poteva essere la belva più pericolosa nella caccia della più giovane delle sorelle Williams al diciottesimo alloro major, ma il suo fuoco di sfida è stato spento già in ottavi di finale da una fidatissima alleata di quest'ultima, ossia Caroline Wozniacki. La danese, che nonostante sia beneficata da insindacabile avvenenza e da decine di miliardari contratti pubblicitari risulta essere ragazza tra le più ben volute nel circuito per la sua straordinaria umanità, siede da tempi non sospetti nel ristretto salotto di amici della pluricampionessa. Entrò nelle sue grazie diciassettenne, quando Venus la prese sotto la propria ala protettiva dopo un paio di doppi d'esibizione organizzati per ragioni di sponsor. Ai tempi dell'embolia, "Caro" fu tra le poche a spingersi oltre gli auguri di facciata recandosi più volte in clinica per sincerarsi delle sue condizioni di salute, e da allora il rapporto si è cementato aldilà dei limiti imposti dalla rivalità sportiva. E' di poche settimane fa la fotografia che ritrae le due in vacanza a South Beach, intente a smaltire le delusioni post Wimbledon di entrambe e, nel caso di Wozniacki, le più disperate angosce post abbandono a mezzo stampa fattole recapitare dall'ufficio di Rory McILroy al momento di consegnare agli invitati le partecipazioni nuziali. Un evento che pareva poter rappresentare un macigno tombale sulle speranze di vertice di un'atleta già provata da un paio d'anni di cupa involuzione sportiva, una spirale discendente che già l'aveva spinta ai margini delle prime dieci e che nulla di buono lasciava presagire per il futuro. Ma gli effetti di un avvenimento tanto doloroso sulla psiche di un campione sono imprevedibili, e dal fondo dell'abisso Caroline è riemersa di forza, tornando ad essere propositiva come ai tempi belli delle sessantasette settimane passate in vetta alla classifica, e riassaporando il gusto di una finale slam proprio a Flushing Meadows, cinque anni dopo aver ceduto a Kim Clijsters la più colossale occasione della carriera.

"Se vincerà lei, sarò la persona più felice del mondo nel vederla conquistare il suo primo slam. Se vincerò io, sarò felice di aver fatto la storia". Così parlò Serena nella conferenza stampa successiva alla vittoria, anche se sarebbe più corretto definirla mattanza, ai danni di Ekaterina Makarova in semifinale, e dall'espressione del volto si capiva perfettamente che la sincerità dell'affermazione non era in dubbio. Tuttavia, una partita non c'è stata. La vincitrice ha iniziato da subito a sentire la palla come nelle giornate perfette, e quando la fiducia irrora il suo sterminato serbatoio di potenza e talento non c'è al mondo una tennista capace di resisterle. Caroline ha corso e corso e dato tutto, come sempre, ma le sue strepitose volate difensive non sono servite a nulla, se non a mettere ulteriori chilometri nella gambe in vista della maratona newyorchese che si è proposta di correre a scopi al solito benefici. L'equilibrio, se di equilibrio si può parlare, c'è così stato solo per i primi cinque giochi, nei quali Serena non è riuscita a far fruttare due consecutivi break cedendo a sua volta il servizio all'avversaria, forse per colpa di un umanissimo picco di tensione in avvio che ha tormentato il suo altrimenti devastante servizio. Poi, fuggita sul cinque a due, la Williams non si è più guardata indietro, chiudendo senza affanno alcuno con un duplice sei a tre, e così riuscendo nella disumana impresa di chiudere il torneo senza concedere più di tre games a set, prima tennista a farcela dai tempi in cui da queste parti dominò Martina Navratilova nel 1983.

Una Serena debordante, mi si perdoni la banalità, che riesce a chiudere un'altra annata da campionessa slam e non era scontato, viste le problematiche prove offerte a Melbourne, Parigi e Londra. Una Serena che troppo presto, e per l'ennesima volta, era stata data in fase calante, ma nessuno tra noi saprà capire quando la fase calante sarà irreversibile. Una Serena che sembra si diverta a prendere per i fondelli chi prova gusto ad organizzarle sistematici funerali, tornando sempre a vincere più dominante che mai. E sinceramente non vedo chi, se non se stessa, possa metterla seriamente in difficoltà l'anno venturo. Nella foto che suggella la premiazione, troviamo accanto a lei una Wozniacki pienamente restituita alla cerchia delle viceregine, e sono sicuro che, così procedendo, la ritroveremo tra le primissime molto presto. Salvo ulteriori fidanzamenti.

Us Open 2014 (finale femminile):

Serena Williams (USA) b. Caroline Wozniacki (DEN)  6-3 6-3

Il genio e la tigna. Bentornato Roger.


La schiena a pezzi e la testa confusa. La racchetta troppo grande ed il morale troppo basso. Succedeva un anno fa, o poco più. Dall' incomprensible decisione di passare l'estate sul rosso europeo tra Gstaad e Amburgo, come non gli succedeva dai tempi degli esordi nel tour maggiore, solo per incassare sonore batoste da Brands e Delbonis, onesti lavoratori della racchetta che fino a sei mesi prima avrebbe sconfitto già al momento del sorteggio, quando gran parte dei suoi avversari si scioglievano al solo pensiero di incrociare lo sguardo bonario e regale di Sua Maestà. Alzi la mano chi, la scorsa estate, non ha pensato anche solo per un secondo, magari vergognandosene, che il Re sarebbe uscito dai primi dieci, magari dal circuito, magari in tempi che non sarebbero stati necessariamente lunghi. E invece Roger, contro qualsiasi previsione fatta prima dell'inizio della nuova stagione, è tornato a vincere un Master 1000, quello a lui più caro, a ventiquattro mesi di distanza dall'ultimo, conquistato proprio a Cincinnati. Il sesto sigillo nel "suo" torneo, anche se sarebbe meglio dire "in uno dei suoi tornei", visto che ieri l'asticella si è alzata a quota ottanta allori portati a casa, è arrivato perché Federer, evidenziando una qualità comune a molti fenomeni e a quasi tutti gli artisti di ogni campo, non ha capito che stava per finire. Quando tutti gli indicatori puntavano verso il basso; quando il buen retiro di Bottmingen sembrava pronto per accoglierlo definitivamente; quando fans, addetti ai lavori e direttori di rotocalchi rosa credevano che Leo e Lenny, la seconda coppia di gemelli in arrivo, avrebbero dato la definitiva mazzata alla voglia di soffrire del campionissimo, Roger si è risvegliato, come se nulla fosse successo.

Naturalmente sordo al can-can mediatico ed alle campane a morto che suonavano sinistre dalle parti di Basilea, lo svizzero ha programmato una preparazione invernale massacrante, rinunciando ai miliardi dell'esibizione dicembrina di Abu-Dhabi per non distrarsi, e si è ripresentato nel circuito tirato a lucido. La stagione, fino a ieri pomeriggio, era stata madre di due successi minori, raccolti a Dubai e nel feudo di Halle, e di molti segnali incoraggianti, visto l'ultimo atto a Wimbledon perso di un'incollatura e le tre finali 1000 cedute all'ex scudiero Wawrinka (Montecarlo), a Djokovic in volata (Indian Wells) e all'impronosticabile Tsonga in versione tornado (Toronto, la settimana scorsa). Successi o meno, era chiaro come il sole che Fed fosse tornato nel salotto buono con convinzione e merito, e, approfittando dell'assenza di Nadal e di un Djokovic presente solo pro-forma, gli è bastato tenere una velocità di crociera media per aggiudicarsi il titolo con relativa comodità, di tanto in tanto subendo, ma raramente va detto, più per proprie distrazioni che per altrui tentativi di ribellione. 

E non c'è che dire, scaldava decisamente il cuore vederlo impazzire di gioia davanti ad un successo certo importante, ma che non sposta di un'oncia il prestigio di una carriera che lo ha visto vincere diciassette slam e ventidue masters 1000, passare oltre trecento settimane in vetta alle classifiche mondiali e guadagnare ottantaquattro milioni di dollari di soli prize money. Significa crederci, e per Federer crederci vuol dire coltivare il pericoloso lusso di vincere il diciottesimo major. Non sappiamo se ci riuscirà, né vogliamo prevedere quali saranno le sue prestazioni agli Us Open, torneo dove oggettivamente ha delle buone carte in mano da giocarsi. Perché queste poche righe vogliono limitarsi ad onorare un campione degno come pochissimi altri dei milioni di fans che da più di quindici anni si emozionano di fronte alla sua poesia.

Un principe baltico e due spiranti reginette. Per salvare Rolando dalla noia.



Brevi ruminazioni per davvero. Su di un torneo dapprima pesante, come le palle ed i campi allagati da litri e litri di pioggia sin dalla settimana dedicata alle qualificazioni. Poi, improvvisamente, arso dal sole ed eterno come la miseria delle partite che hanno popolato le fasi salienti dei Campionati del Mondo su terra battuta.

Un principe e qualche principessa.

Non fosse stato per Ernests da Jurmala, il torneo maschile sarebbe presto finito impolverato nei tennistici archivi come "un Rolando a caso di quelli vinti da Nadal, mentre il Djokovic o Federer di turno, ora non ricordo con precisione, tentava vanamente di sottrarglielo". Per nostra fortuna, Gulbis ha deciso di giocare il torneo al posto di proporre la classica esibizione, e di allenarsi con senno, anche: "pensavo che avrei potuto correre per sempre", dichiarerà nell'intervista successiva alla demolizione di Berdych in quarti di finale. E per due set, curiosamente quelli conclusivi, il lettone è parso poter mettere in difficoltà persino Djokovic, fino a quel momento imprendibile nonostante un tabellone insidiosetto, in semifinale. Fatto sta che il serbo, quando ragiona a certi livelli, può soffrire solo e soltanto con Nadal, e forse qualche volta con Wawrinka ma solo sui campi duri all'aperto. Gulbis porta a casa lo scalpo di due top ten, compreso quello di un Federer non nuovo a suicidi sportivi in questa stagione, ed un posto tra i primi dieci lungamente rincorso: se la concentrazione di Ernestone tiene, a Wimbledon potremmo vederne delle belle.

Insieme al Nobile baltico, a far ribollire almeno un po' il sangue nelle nostre vene ci ha pensato un tabellone femminile pazzo oltre ogni previsione nella prima settimana e spettacolare il giusto nei rounds decisivi. Dopo quattro giorni e due turni, il torneo era già orfano delle prime tre teste di serie, tutte andate a sbattere piuttosto fragorosamente. Se Li Na, dopo il successo su Francesca Schiavone del 2011, sembra perseguitata da una nemesi strettamente parigina che quest'anno, sotto le sembianze di Kristina Mladenovic, l'ha colpita in secondo turno, l'evento sismico più rumoroso lo ha causato l'uscita di scena della favorita e campionessa in carica Serena Williams, cacciata senza riguardi da Garbine Muguruza, una delle vedettes più in vista della nuova generazione scalpitante. La favorita di tutti è diventata così Maria Sharapova, la quale si è presa tutto il vantaggio e, salvatasi in tre turni di fila quasi solo grazie ad una mentalità vincente senza eguali nonostante tre primi set persi consecutivamente, ha finito per mandare i proverbiali baci al ceruleo cielo parigino per la seconda volta, portando a cinque il numero di major conquistati in carriera.

La semifinale tra Maria ed Eugenie Bouchard e la finale tra la siberiana e Simona Halep rimarranno i due momenti che, nella povertà generale di un torneo un po' ingrigito, andranno conservati gelosamente nella memoria del nostro sport. La canadese, che non solo su queste pagine era data in fase di difficoltoso adattamento alla terra, è stata autrice di un torneo favoloso, mostrando una capacità d'apprendimento sconfinata ed una mentalità da campionessa che non si compra. Per quasi due ore, Sharapova ha temuto davvero di non farcela, e credo che la neo numero dodici del mondo, vent'anni compiuti a febbraio, avrà modo di festeggiare a breve svariati allori. Così come la rumena, che ha contribuito notevolmente alla riuscita della miglior finale femminile da molti anni a questa parte, capace com'è stata di  ribellarsi più volte alla sconfitta nonostante un'avversaria famelica ed esperta, senza battere ciglio, senza una lamentela, con forza, coraggio ed una capacità di generare angoli da lasciar il fiato sospeso. Non sarà sorprendente assistere ad un duraturo dualismo tra filo-canadesi e simpatizzanti rumeni, tra qualche tempo.

L'incubo slovacco di Fognini.



Klizan ha un conto in sospeso con Fognini, e Fognini non sa perché. Nessuno sa perché. Martin, slovacco serioso, uno che, così per dire, non risulta necessariamente simpatico a pelle, è stato per mesi in nomination con l'ambizione triste di vincere il premio che ogni anno viene idealmente assegnato al tennista più involuto della stagione. Ventiquattro anni, mancino, uno e novanta comodi, di servizio e dritto generosi, Klizan aveva toccato il vertice della propria carriera sul finire dell'estate duemiladodici, quando, dopo aver fatto il gradasso nei challenger estivi sul rosso, vincendo peraltro Bordeaux e San Marino, s'era regalato uno US Open da sorpresa, falciando Tsonga, allora sesto favorito, al secondo turno, e veleggiando fino agli ottavi, dov'era stato eliminato da Cilic. Sull'abbrivio, il tennista di Bratislava aveva raggiunto la prima finale in carriera nel circuito maggiore, a San Pietroburgo, e vi aveva trovato Fognini, battendolo nell'occasione piuttosto nettamente. L'ascesa è durata fino al mese di marzo dell'anno successivo, quando l'allievo di Martin Damm, raggiunta la ventiseiesima posizione della classifica mondiale ed il proprio best ranking, ha iniziato la lunga discesa agli inferi del tennis pro: primi turni in serie, ritorno al circuito challenger, uscita dai primi cento. Lo si è rivisto, Martin, tentare le qualificazioni qua e là; a volte riuscendo, a volte perdendo da carneadi che fino a pochi mesi prima avrebbe dilaniato a furia di drittoni mancini. Fino all'arrivo a Monaco di Baviera, dove si è presentato con una poco edificante classifica di centoundicesimo tennista del globo. Passate le qualificazioni soffrendo le cosiddette pene dell'inferno contro l'omonimo austriaco Fischer in secondo turno, dopo una vittoriosa maratona nel match chiave contro Youzhny all'alba del torneo ha guadagnato la seconda finale 250 della carriera. Chi poteva trovare ad aspettarlo? Fabio, naturalmente, che in Bavaria godeva della prima testa di serie assoluta.

Fognini schiacciava sull'acceleratore da subito, con tutto il peso del corpo, ed era chiaro che, continuando a scambiare da fondo, il match difficilmente avrebbe superato l'ora di durata. Primo set, 6-2 per il ligure, che andava a sedersi ad aspettare il secondo parziale con l'annoiata faccia di burocrate che tira alla fine del turno pomeridiano. Klizan, nel frattempo, nascondeva un'indicibile sofferenza sotto l'asciugamano, ed i segnali facevano presagire un suo possibile imminente ritiro. Nel secondo parziale, però, tra un'occhiata colma di disperazione e la sconsolata testa penzoloni dopo ogni punto, lo slovacco cambiava radicalmente strategia, e, rifiutando ogni scambio che eccedesse i cinque colpi dalla linea di fondo, iniziava a tirare tutto quello che vedeva, non disdegnando qualche improvvisata al net. Fognini, essendo Fognini, veniva mandato fuori registro non già dalla rivoluzione tattica operata dal suo avversario, ma dall'atteggiamento ostentatamente sofferto dello stesso, e non perdeva l'occasione per irritarsi oltre ogni logica regalando il match in quaranta minuti inguardabili, cedendo secondo e terzo parziale per 6-1 6-2.

"Spero che Klizan stia bene", polemizzava Fognini nella conferenza stampa post match. Non possiamo immaginare cosa sia passato nella testa e nel corpo dello slovacco, ma siamo sicuri che un certo benessere spirituale lo coglierà spesso, ogni qualvolta vedrà Fabio iscritto ad un torneo, possibilmente sorteggiato nella parte di tabellone opposta alla sua.


ATP MONACO DI BAVIERA (finale):

Martin Klizan (svk) b. Fabio Fognini (ita) 2-6 6-1 6-2

Stanislas e altre storie monegasche.


Il Country Club, leggendaria sede ospitante il Monte Carlo Rolex Masters, resta  il circolo più bello del mondo; nella mente, dunque, come ogni anno, resta soprattutto quello. Un circolo che ospita il torneo più affascinante del globo, per la precisione, insieme a quelli che si svolgono sull'estiva erba britannica. E pensare che i soloni ai vertici dell'Association of Tennis Professionals hanno parecchio insistito per abbassarlo di grado, per declassarlo ad umile 500, visti i ridotti margini di crescita, perlopiù addebitabili a questioni logistiche e territoriali, che l'evento monegasco può offrire rispetto ai rampanti parvenu orientali, i quali si son messi in testa di innestare tennis d'elite in quantità sempre maggiore nelle loro terre d'origine. Per fortuna, l'inattesa mobilitazione di molti giocatori, anche di vertice, ha per ora salvato il torneo, ed il Dio Tennis ha ripagato la scelta regalando una settimana ricca di eventi imprevedibili, oltre che di mattane ampiamente pronosticabili.

Ciò che dei primi giorni del Masters rimane appiccicato alla memoria attiene soprattutto ai colpi di testa degli specialisti del settore. Il premio per la miglior interpretazione se lo aggiudica Fabio Fognini, uno che, quando c'è da far strabuzzare gli occhi per questioni che nulla c'entrano con il campo e la racchetta, non sente ragioni: dopo aver servito abbondante antipasto nei primi due turni, dai quali usciva illeso grazie a schizofreniche vittorie ai danni di Joao Sousa e Roberto Bautista-Agut, in quarto turno Fabio sottraeva il primo set a Tsonga e, trovatosi sul tre pari nel secondo, decideva di omaggiare l'ultimo francese sopravvissuto in tabellone di nove games filati, demolendo al contempo di insulti il padre Fulvio, pietrificato in tribuna.  Pur non avvicinabili in quanto a spettacolo offerto, ricorderemo con affetto le bizzarre esibizioni di due consumati maestri d'instabilità come Gael Monfils ed Alex Dolgopolov, suicidatisi in mezzo ad un mare di orrori contro Carreno-Busta e Garcia Lopez. Quest'ultimo ha invece rappresentato quella che con ogni probabilità è stata la miglior sorpresa del torneo: quasi trentun anni, con un best ranking di numero 23 ottenuto nel febbraio di tre anni fa e dotato di un rovescio ad una mano che riconcilia con il tennis, Guillermo da Albacete si è fermato solo ai quarti, non prima di aver sculacciato un Berdych deludentissimo e di aver fatto tremare Novak Djokovic. Un bravo a lui, dunque, ed una nota di demerito per Nole e Rafa Nadal, che credevamo avrebbero dominato, sul rosso europeo, addirittura più di quanto avessero fatto fino ad ora. Djokovic, brutto in faccia già in quarti di finale, si squagliava contro un Federer sempre più in palla, mentre Rafa, il cui spin continua ad essere nudo, privato com'è della proverbiale spinta, e fallosissimo specie con il rovescio lungolinea, perdeva in due di puro ritmo da David Ferrer, che avrà pur quasi finito la benzina, come da egli stesso dichiarato alla stampa, ma che ad anni trentadue, se non riescono a portarlo fuori giri, certe partite le arraffa ancora volentieri.

L'ottimo Ferru cedeva piuttosto nettamente la semifinale all'atleta più dominante della settimana, quello Stan Wawrinka che, dopo aver smaltito durante la primavera americana i bagordi post-australiani, ha ricaricato le pile per la superficie a lui più cara. La finale metteva dunque di fronte i due svizzeri; il maestro e l'allievo; il generale ed il tenente. Stan, come soffrendo lo status di perenne sottoposto, soffriva più la personalità di Federer che il Federer in carne ed ossa, che comunque si muoveva bene dall'altra parte della rete, e gli cedeva il primo set. Nel secondo, Roger pareggiava subito la partenza con break del compatriota, ed i successivi turni di servizio, piuttosto solidi, portavano il match al tie break. Il tredicesimo gioco veniva deciso da un solo minibreak a favore di Wawrinka, che profittava di un rovescio steccato da Federer sul secondo punto, e finiva proprio nelle mani del tennista di Losanna al terzo set point, grazie ad uno smash apparecchiato da una prima ingestibile. A questo punto le energie di Federer andavano piuttosto rapidamente in riserva, mentre Stanislas, che con lo scorrere del match aveva pian piano dimenticato il proprio complesso di inferiorità, faceva valere la nota tenuta sulla lunga distanza, e chiudeva rapidamente set e match con il punteggio di sei giochi a due.

L'abbraccio tra due amici sinceri, alla fine dell'incontro, è stato il suggello di una settimana difficile da replicare nel corso della stagione. Perché a Shangai e a Mason, Ohio, ci saranno pure denari e possibilità di crescita illimitate, ma il fascino della Cote durante la terza settimana di aprile è qualcosa che va oltre ogni possibile obiettivo politico e materiale. L'unico pensiero negativo, essendomi capitato d'essere italiano, lo dedico alla semifinale settembrina di Coppa Davis. Cambieranno molti fattori, presumibilmente, ma Federer e Wawrinka sembrano vivere un'annata promettente, se non addirittura di grazia.